Lo chiamavano “Simoncino”. L’hanno soprannominato “demone di Piacenza”. Da oggi sarà più semplicemente “campione”. Simone Inzaghi ha coronato un altro sogno: vincere uno scudetto da allenatore. Un’impresa che aveva compiuto solo con gli scarpini ai piedi. E che da quando ha saltato la linea laterale per sedersi in panchina, aveva solo annusato.
Sono passati esattamente 8744 da giorni dall’ultima laurea a campione d’Italia. Era il 14 maggio 2000, una domenica. Lo stadio Olimpico di Roma pulsava. Aveva il cuore sul campo e la testa a Perugia, dov’era in scena la Juventus. Inzaghi guidò l’assalto alla Reggina. Bucò la rete per primo, su calcio di rigore. Poi successe l’incredibile. La Lazio vinse 3-0, rientrò negli spogliatoi e accese la radiolina. Ascoltò le notizie che arrivavano dal “Curi”, sentì “Tutto il calcio minuto per minuto” annunciare il gol di Calori. Il resto è storia. Nello spogliatoio scoppiò la festa. Simone, assieme ai compagni, riuscì tra i tifosi. Fu il secondo Scudetto della storia biancoceleste. L’ultimo, prima di sposare l’Inter, per Simoncino.
La vittoria più bella è arrivata quando ormai arrivare secondo era divenuta normalità. Ma, d’altronde, che Inzaghi fosse un predestinato lo si era capito subito. Mancava solo la ciliegia tricolore da mettere sopra una torta al sapore di predestinazione. Le stimmate del grande allenatore le aveva già mostrate sulla panchina della Primavera biancoceleste. Raccolse l’eredità di Alberto Bollini, traghettò una generazione d’oro e alzò al cielo due Coppe Italia e una Supercoppa Italiana. Quelle che, a distanza di anni e categorie, sono divenute la specialità della casa.
Sono otto, infatti, le coppe nazionali vinte alla guida di Lazio e Inter. Tante, praticamente una all’anno da quando allena tra i grandi. Eppure, mancava ancora qualcosa: lo Scudetto. Quella toppa che sembrava rifuggire la sua giacca. Una prima volta solo la pandemia riuscì a rallentare la macchina perfetta che stava guidando verso un traguardo storico. Ritornati a giocare dopo lo stop forzato, infatti, Immobile e compagni sembrarono la brutta copia di loro stessi e finirono addirittura terzi. Nella seconda volta, invece, fu la tragica notte di Bologna a indirizzare la vittoria finale sull’altra sponda dei Navigli, a Casa Milan. Gli ingredienti per cucinare una maledizione, insomma, c’erano tutti. Persino quel pizzico di sfortuna che, al termine di una finale giocata più che alla pari con il Manchester City, aveva negato all’Inter di alzare al cielo la Champions League.
Sono queste le premesse con le quali Inzaghi ha iniziato il terzo anno alla guida dell’Inter. Una stagione cominciata tra le nebbie della pianura Padana e finita a esultare all’ombra della Madonnina del Duomo di Milano. Perché 24 anni dopo ce l’ha fatta. Al termine di mesi trionfali, praticamente perfetti, è tornato a gioire. Ha nascosto, almeno per una sera, l’abito da demone per vestire quello tricolore. Lo teneva nell’armadio da più di ottomila giorni. Dietro la schiena non ha scritto Inzaghi, né Simone, Simoncino o Demone. Ma solo otto lettere: campione.
Daniele Izzo